Ulteriormente sussistono plurimi profili di incostituzionalità dell’art. 58, comma 2, del D.L.
25 giugno 2008, n. 112, convertito in Legge 6 agosto 2008, n. 133 in relazione agli art. 9 e
97 della Costituzione ove è consentito, attraverso l’improprio utilizzo dello strumento del
silenzio assenso da formarsi nel termine di trenta giorni, l’autorizzazione a dismettere ex
art. 11quinques del D.L. n. 203/2005 beni immobili pubblici sottoposti a tutela di natura
storico artistica, archeologica, architettonica e paesaggistica -ambientale. Nel caso di beni
di interesse storico artistico la tutela non riguarda soltanto il bene materiale in sé, ma
sussiste una tutela del bene inteso come patrimonio per la collettività; il bene culturale
deve essere, dunque, inteso come bene oggetto di diritti collettivi di natura pubblicistica
(in Dottrina Cerulli Irelli, V., Beni culturali e diritti collettivi, in scritti in onore di Massimo
Severo Giannini, Milano 1988, I, 137-176). La tutela, infatti, si estrinseca nella
“trasmissione” alle generazioni future del valore culturale rappresentato da quei beni (In
Dottrina GIANNINI, i beni culturali, in rivista trimestrale di diritto pubblico, 1976, pp. 18 e
ss. Roma, Giuffrè, 1963) e devono essere considerati come “beni di pubblica fruizione”.
Per collocare nella giusta dimensione i profili di illegittimità costituzionale della norma
citata è opportuno far riferimento alla intera disciplina legislativa riguardante la tutela degli
immobili pubblici di interesse storico e artistico distinguendo le disposizioni emanate prima
e dopo l’avvento della Costituzione repubblicana, evidenziando che nel passaggio dallo
Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana è mutato il concetto stesso di Stato, il
quale da “Stato persona” è diventato “Stato comunità”, con inevitabili riflessi sul piano
della “appartenenza” e della “gestione” dei beni di cui si parla.
Nella vigenza dello Statuto Albertino era consentita la vendita di opere aventi valore
storico artistico di proprietà dello Stato, purché da essa non ne derivasse danno alla
conservazione e non ne venisse “menomato il pubblico godimento”; in ogni caso
l’alienazione poteva avvenire solo successivamente all’autorizzazione del Ministero
competente (Cfr. art. 24 L. 1. Giugno 1939 n. 1089). Si evidenzia che, con l’avvento del
Codice Civile del 1942 si è consolidata la tutela di detti beni, attribuendo ad essi anche il
carattere di demanialità di cui all’art. 822. In cosa consista la “demanialità” del bene è
spiegato dal seguente art. 823, ove si statuisce che tali beni sono inalienabili e non
possono formare oggetto di diritti da parte dei terzi se non nei limiti stabiliti dalle leggi che
li riguardano. Il carattere della “demanialità” può riguardare sia i beni artistici e storici di
proprietà dello Stato sia quelli appartenenti agli Enti pubblici territoriali (art. 824 c.c.). È
opportuno precisare che il carattere della “demanialità”, nelle previsioni del Codice Civile,
non è assoluto, essendo prevista, a certe condizioni, la possibilità di procedere anche alla
“sdemanializzazione”, al fine di procedere alla vendita. A tal proposito è opportuno
precisare che è necessario, come presto vedremo, ottenere il parere favorevole del
Ministro per i beni e le attività culturali. Passando alla disciplina degli immobili pubblici
artistici e storici intervenuta dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, è da
premettere che, in virtù dell’art. 1, comma 2, Cost., secondo il quale “la sovranità
appartiene al Popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, i “beni
pubblici demaniali” non sono più oggetto di una “potestà” dello Stato persona, ma sono
diventati “proprietà collettiva demaniale” dello Stato comunità, cioè del Popolo (M.S.
Giannini, Basi costituzionali della proprietà privata, in “Politica del diritto”, 1971, p. 452),
mentre la loro “gestione” è necessariamente curata dallo “Stato persona” (e più
precisamente dalla “ Pubblica Amministrazione”). Lo ha precisato molto bene, e da tempo,
anche Aldo Sandulli (A. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1969, p. 5 s.).
È in tale prospettiva che il “Codice di beni culturali e del paesaggio” ha definito i beni
artistici e storici sancendo che: “i beni culturali appartenenti allo Stato, alle Regioni e agli
altri Enti pubblici territoriali che rientrano nelle tipologie indicate dall’art. 822 del codice
civile costituiscono il demanio culturale” (Art. 53). Il predetto codice di seguito (artt. 54,55
e 56) disciplina i beni del tutto inalienabili e quelli che possono essere alienati solo previa
autorizzazione del Ministero. È evidente che il Codice dei beni culturali e del paesaggio ha
inciso sulle stesse disposizioni del Codice Civile, sancendo che la vendita di detti immobili è
consentita solo previa autorizzazione da parte del Ministero, al quale spetta di assicurare la
tutela e la conservazione dei beni artistici e storici e la loro pubblica fruizione. La norma
risulta incostituzionale, pertanto, proprio nella parte in cui permette la vendita di beni di
interesse storico artistico, anche senza che il MIBACT sia chiamato ad esprimersi sul valore
degli stessi, consentendo il formarsi del silenzio assenso. In tal senso l’impugnata
disposizione viola il “criterio di ragionevolezza” di cui all’art. 3, così come elaborato dalla
Giurisprudenza costituzionale. Risulta di tutta evidenza che la Deliberazione di vendita del
FORLANINI da Parte della Regione Lazio non ha tenuto conto della disciplina legislativa in
materia, violando, altresì, l’art.9 della Costituzione secondo il quale la Repubblica tutela il
paesaggio ed il patrimonio storico e artistico. È di tutta evidenza che la tutela del
patrimonio storico culturale di una nazione, sulla quale si fondano le proprie radici (lo
stesso Ministro FRANCESCHINI definisce il Patrimonio storico artistico come “testimonianza
materiale di civiltà”), che dovranno essere doverosamente trasmesse alle future
generazioni, è di preminente interesse Costituzionale, rispetto alla semplice portata
economica di una dismissione immobiliare. E non è tutto. Risulta incontrovertibile, infatti,
che la normativa in questione viola clamorosamente anche l’art. 42 Cost., là dove si
afferma che “la proprietà è pubblica e privata”. In effetti, quando la citata normativa rende
“alienabili” i beni immobili pubblici che si trovino nella condizione giuridica di “beni
demaniali”, è la “proprietà pubblica” che viene cancellata, una “proprietà” da definire,
come sopra si è visto, “proprietà collettiva demaniale”. D’altro canto si tenga presente che,
sulla base di quanto affermato dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 105 del
2008; 1, del 2010; e 112 del 2011, quando si parla di beni artistici e storici è agevole
constatare che sulla stessa “cosa” insistono due “beni giuridici”: il “bene economico” (che
è trasferibile) e il “bene culturale” o paesaggistico, o ambientale, (che è “inalienabile”) e
che per questo è assolutamente indispensabile la concessione di una “autorizzazione
ministeriale”, che prescriva i provvedimenti che l’acquirente deve adottare per assicurare
la “conservazione” del bene e la sua “pubblica fruizione”. E non sfugga che, se si è più
volte parlato di “demanialità” e, se il vigente Codice per i beni culturali è arrivato a parlare
di “demanio culturale”, è proprio perché è la “proprietà”, nel nostro caso la “proprietà
collettiva demaniale”, che riesce a tutelare nel modo migliore i beni di cui si tratta.
Dunque, la violazione dell’art. 42 Cost. è estremamente certa e rende estremamente grave
il fatto che una normativa di legge ordinaria, per scopi di pura cassa, dichiari “alienabili” i
beni immobili pubblici che si trovino nella condizione giuridica di “beni demaniali”. Non è
chi non veda poi come la cancellazione per legge della necessità dell’ “autorizzazione
ministeriale” nel caso della vendita di immobili artistici e storici in proprietà pubblica, violi
anche l’art. 97 Cost. Appare evidente, infatti, che non si può dire “assicurato” il“buon
andamento della pubblica amministrazione”, se si consente a quest’ultima di “alienare”
questi beni medesimi, senza alcuna “autorizzazione Ministeriale” I profili di
incostituzionalità nel caso di specie sono davvero molteplici. In conclusione è necessario
fare riferimento ancora una volta all’art. 3 Cost., poiché consentire la vendita di immobili
artistici e storici, senza alcuna “autorizzazione ministeriale” e con il semplice “inserimento”
dei beni in questione in un “elenco”, e, quindi, in un “piano di vendite di immobili in
proprietà pubblica”, non può non essere qualificato che come un fatto del tutto
“irragionevole”. L’ultima ratio, per salvare la legittimità costituzionale di una legge, come ci
ha insegnato la Corte Costituzionale, è il ricorso alla “logica”, cioè alla “ragionevolezza”,
come poc’anzi si è detto. E non è chi non veda che vendere il FORLANINI, senza aver
ottenuto il parere del MIBACT, è un fatto estremamente “illogico e irragionevole”.