Giustizia sociale: lavoro o povertà. (1)
L’Arcivescovo di S. Salvator, Monsignor Oscar Arnulfo Romero, di recente canonizzato per volontà di Papa Francesco, che fu ucciso mentre celebrava la Messa il 24 marzo 1980 da un cecchino degli squadroni della morte a causa della sua forte presa di posizione contro la dittatura militare a favore dei più poveri e dei più sfruttati, qualche giorno prima del preannunciato assassinio disse “la voce della giustizia nessuno mai potrà ammazzarla”.
La giustizia sociale è il più alto valore di una società civile, la quale, come è noto, poggia sull’alternativa “lavoro o povertà”. Perciò la nostra Costituzione repubblicana, che è grande proprio perché persegue la giustizia sociale, dà tanto rilievo al lavoro. L’art. 1 Cost. proclama che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e il successivo art. 4 Cost. sancisce che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”. Insomma, secondo la nostra Costituzione tutti devono lavorare, conseguendo il diritto a una retribuzione atta a garantire al singolo e alla sua famiglia “una esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.), mentre soltanto “gli inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere” hanno diritto “al mantenimento e all’assistenza sociale”(art. 38 Cost.).
In sostanza, la “giustizia sociale” individua nel lavoro una, per così dire, “forma di distribuzione” e, nello stesso tempo, di “creazione della ricchezza nazionale”, fenomeno dal quale dipende il benessere di tutti e, quindi, una sostanziale “eguaglianza economica” (art. 3, comma 2, Cost.). E se davvero si vuole rendere effettivo questo diritto, il problema centrale è quello di individuare in primo luogo “le fonti di produzione di ricchezza e di lavoro”, e in secondo luogo quali sono le cause che distolgono queste “fonti” dai loro fini sociali.
Quanto al primo punto sono poche le parole da spendere. Nella nostra società capitalistica non occorre altro che l’investimento del capitale in attività produttive, mentre è da tener presente che le occasioni di lavoro derivano, oltre che dalle risorse naturali (specialmente quelle energetiche), dal territorio e dall’ambiente, in special modo dai servizi pubblici essenziali: le autostrade, le rotte aeree, le linee marittime, le frequenze televisive e così via dicendo. E’ per questo che l’art. 43 della Costituzione riserva alla mano pubblica o a Comunità di lavoratori o di utenti le imprese che ineriscono, per l’appunto, a fonti di energia, a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio.
Quanto al secondo punto, il problema è quello di individuare quali sono le cause che, eliminando ogni fine sociale e fermandosi alla tutela (peraltro errata) degli interessi individuali, impediscono gli investimenti produttivi e, conseguentemente, fanno ritenere che il lavoratore sia una mercanzia, soggetta agli alti e bassi dell’economia, e non una persona umana che ha diritto di vivere.
Dal nostro punto di vista, abbiamo individuato tre cause fondamentali: a) la sostituzione del sistema economico produttivo di stampo keynesiano con un sistema economico predatorio di stampo neoliberista; b) la esaltazione del concetto di “proprietà privata”, sul concetto (storicamente precedente e costituzionalmente prevalente) della “proprietà pubblica o collettiva” che dir si voglia; c) la supposta legalità delle cosiddette “privatizzazioni”, della trasformazione cioè della “proprietà pubblica” in “proprietà privata”.
In riferimento alla prima delle suddette cause distruttive delle fonti del lavoro, occorre ricordare due pensieri economici diversi: quello keynesiano, fondato sulla natura, e quello neoliberista fondato su una astrazione intellettuale. Secondo Keynes, occorre partire dalla base della piramide sociale e distribuire la ricchezza tra i lavoratori, poiché sono questi che si recano ai negozi, sono i negozi che si rivolgono alle imprese e sono queste ultime che producono lavoro e merci. D’altro canto, poiché è impossibile ritenere che i capitalisti impieghino comunque il loro capitale in investimenti produttivi, è assolutamente necessario che lo Stato, cioè il Popolo nel suo complesso, agisca come protagonista nell’economia, orientandola verso la soddisfazione dei bisogni più urgenti di tutti.
Secondo i neoliberisti, invece, la ricchezza deve essere accentrata nelle mani di pochi, questi devono agire in forte competitività e lo Stato non deve entrare nell’economia. Come si nota, una visione astratta, lontana dalla realtà, e che presuppone ciò che non è affatto dimostrato, il dato cioè che gli attori economici investano in attività produttive. La storia di questi ultimi decenni ha, per l’appunto, dimostrato il contrario. I capitalisti infatti hanno finanziarizzato i mercati, hanno creato una ricchezza fittizia (cartolarizzazioni, derivati, projet bond, ecc,), non investendo affatto in attività produttive, ma nell’acquisto di altri capitali, anche questi soprattutto fittizi, in modo da poter agevolmente acquistare beni reali esistenti, anziché produrli. Gli effetti di questo errato pensiero è davanti gli occhi di tutti: infatti si è verificato a livello mondiale un regresso generalizzato dell’economia con la trasformazione del “lavoro” da “diritto fondamentale” in pura “merce” di scambio.
La seconda, concorrente causa di distruzione delle fonti di lavoro e di ricchezza è, come si accennava, l’esaltazione del concetto di “proprietà privata”. Non si è tenuto conto, in sostanza, che la nostra Costituzione offre una definizione di proprietà privata ben diversa da quella dell’art. 832 del codice civile. Infatti, mentre quest’ultimo afferma che “il proprietario ha diritto di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo”, l’art. 42, comma 2, della Costituzione sancisce che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge …. allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. Ciò vuol dire in pratica che il proprietario che non assolve alla “funzione sociale” perde la tutela giuridica del suo diritto di proprietà privata, in sostanza non è più proprietario ad opera della stessa Costituzione. Stiamo parlando, ovviamente della grande proprietà privata, quella che supera il soddisfacimento dei bisogni essenziali propri e della propria famiglia, poiché in quest’ultimo caso, detto della “proprietà personale”, non esiste quel surplus di utilità da poter distribuire ad altri: non si può configurare in sostanza il contenuto stesso della “funzione sociale”.
Connesso al concetto di funzione sociale della proprietà privata è il principio costituzionale di cui all’articolo 41 Cost. riguardante il trasferimento della proprietà e i contratti in genere. La disposizione cioè secondo la quale “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. In sostanza, se un imprenditore “delocalizza” o “vende” a stranieri la propria azienda, provocando il “licenziamento degli operai”, pone in essere un “contratto nullo” ai sensi dell’art. 1418 del codice civile, poiché infrange le norme imperative costituzionali riguardanti la “funzione sociale” della proprietà privata” e “l’utilità sociale” che deve perseguire l’iniziativa economica privata. Purtroppo questi concetti sono pienamente disattesi e si parla di libero mercato globale o di mercato interno europeo, senza tener presente che secondo la cosiddetta ”teoria dei contro limiti”, elaborata dalla giurisprudenza costituzionale, sulle norme europee e su quanto dispongono i trattati internazionale “prevalgono” le norme della nostra Costituzione che tutelano “diritti fondamentali”, come per l’appunto, il diritto al lavoro.
La terza causa distruttiva del diritto al lavoro è costituita dal generale, ma errato, convincimento che sia possibile “privatizzare”, far passare i beni, cioè dal “patrimonio pubblico” al patrimonio di singoli privati. Non si è tenuto conto, in sostanza, che la società è formata da due tipi di soggetti: “l’individuo” e il ”Popolo”, o “Collettività” che dir si voglia, e che, di conseguenza, se non è possibile al singolo assicurarsi una vita dignitosa con i frutti del suo lavoro, e cioè con il suo salario, così non è possibile per il complesso dei cittadini assicurarsi la soddisfazione delle primarie necessità proprie, se non si dispone di un “patrimonio pubblico”, cioè di un complesso di beni che possa assicurare il funzionamento dei servizi pubblici essenziali e le condizioni minime di una vita libera e dignitosa (art. 36 Cost.). E così, in pieno contrasto con i principi costituzionali (l’art. 42 Cost. afferma: “La proprietà è pubblica e privata”)e contro gli interessi del “Popolo sovrano”, “fonti di ricchezza e di lavoro” sono state “cedute” a privati, i quali hanno gestito i beni e i servizi pubblici essenziali nel loro personale interesse (come dimostra il crollo del ponte di Genova), spesso vendendo a stranieri questi beni medesimi (come è avvenuto per le ferrovie di “Italo”). Oggi il “patrimonio pubblico” italiano è stato drasticamente ridotto ed è diventato impossibile anche attuare una “politica economica” interna che assicuri un minimo di benessere, dovendosi soltanto pensare a mantenere, come impongono i Trattati europei, il “pareggio di bilancio”, incautamente introdotto in Costituzione, in conseguenza dello enorme “debito pubblico”, che è stato posto sulle nostre spalle dagli speculatori finanziari del mercato globale, dopo che il Ministro Andreatta, con lettera del 12 febbraio 1981, aveva sollevato la Banca d’Italia dall’obbligo di acquistare i nostri buoni del tesoro rimasti invenduti.
E’ poi da sottolineare che quando un Ente o una Azienda pubblica è privatizzata, cioè è trasformata in S.P.A. , i “profitti” non tornano al Popolo, ma restano alla società, che è costituita da singoli privati, sia italiani, sia stranieri. Non solo. Poiché la Società per azioni non è lo Stato, essa può girare il mondo come vogliono gli azionisti, provocando anche per questa via, perdita di ricchezza e di posti di lavoro. E non è finita: qualora poi, come sovente è accaduto, la società, mal governata, sta per fallire, deve ancora intervenire lo Stato per evitare il fallimento. Insomma, i profitti sono dei singoli, le perdite della collettività, cioè degli Italiani. Un vero capolavoro di ingegneria giuridica!
Appare chiaro, dopo quanto detto, che sollevare l’Italia dall’abisso nel quale i nostri inetti governanti l’hanno cacciata, il lavoro è lungo e difficile. E difficoltà molto serie riguardano proprio la nostra partecipazione all’Unione Europea, che oggi è uno strumento attraverso il quale i Paesi economicamente più forti, come la Germania e la Francia, si impadroniscono a poco prezzo dei beni reali dei Paesi, come il nostro, economicamente più deboli. Uno Stato federale europeo è indispensabile, ma è altrettanto indispensabile che l’Italia faccia parte di questo Stato europeo “in condizioni di parità con gli altri Stati”, come prescrive l’articolo 11 della Costituzione. A questo fine, sembra indispensabile che l’Italia, anziché disperdere le proprie risorse economiche in mille rivoli, si decida a concentrarle nella “rinazionalizzazione” di quanto erroneamente è stato “privatizzato” e ricostituisca quel “patrimonio pubblico”, irrazionalmente distrutto. In tal modo, ci impadroniremmo di nuovo di quelle “fonti di ricchezza e di lavoro”, che, sole, ci permetterebbero di rimettere in sesto la nostra economia e, con essa, la nostra forza contrattuale con gli altri Stati. E va da sé che, con la ricostituzione del “patrimonio pubblico” (al quale è assegnato il compito di soddisfare i bisogni primari del popolo), deve provvedersi a una “revisione del debito pubblico”, poiché è ovvio che la ”speculazione finanziaria” non può produrre diritti di credito. Occorre, insomma che gli Uffici a ciò preposti operino una “revisione del debito”, evidenziando quale parte di esso non deve essere rimborsato a termine di legge. Si scoprirà allora che siamo molto meno debitori di quanto si legge nella attuale contabilità pubblica.
Professor Paolo Maddalena (2)
(1) Relazione per la manifestazione in occasione della canonizzazione dell’Arcivescovo Romero, Roma, 14 ottobre 2018, via S: Croce in Gerusalemme, 55
(2) Per la bibliografia rinvio ai miei due volumi: Il territorio bene comune degli Italiani, Ed. Donzelli, Roma 2014, e Gli inganni della finanza, Ed. Donzelli, Roma 2016.
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